ROSSOFUOCO

WALKING WITH RED RHINO

A SPASSO CON ALBERTO SIGNETTO

MARILENA MORETTI

Documentario - 2014 - 109'

Grande e grosso, una massa di capelli grigi legati sulla nuca, un borsone a tracolla e dentro una telecamera per prendere appunti. Artista rigoroso, filmmaker ostinato, intellettuale libero. Questo era Alberto Signetto, scomparso nel gennaio 2014. Per tutti il “Red Rhino” (da pronunciare assolutamente “Rino” alla piemontese)
“Mi riconosco in questo animale cocciuto, grosso, ingombrante e poco addomesticabile, infido… Ogni tanto il rinoceronte dà la carica alla jeep dei bianchi, anche se la jeep è più grossa, sapendo benissimo di perdere…”, sono le sue parole.
Per tutta la vita ha dovuto fare i conti con la mancanza di risorse, la precarietà, le difficoltà di fare un cinema fuori dalle regole del mercato. Rivendicando orgogliosamente la sua coerenza. Fino alla fine lucido, ironico, non allineato.

Nel film Alberto si racconta, è un fiume di parole fatto di ricordi, incontri, frammenti delle sue opere, pensieri intimi. In cui si alternano momenti divertenti ed altri dolorosi.
Più che una biografia, è un ritratto affettuoso di un uomo libero, di un regista che avrebbe meritato maggiori riconoscimenti. La sua vicenda riguarda tutti coloro che fanno cinema (e arte) indipendente, senza tradire se stessi.



Nota dell’autrice
Conoscevo Alberto Signetto da sempre, avevamo cominciato insieme a lavorare come registi in Rai, nei primi anni ’80. Lui irruente, creativo, debordante. Un affabulatore. Simpatico, ironico. Un cinefilo accanito, un appassionato di Godard, della Nouvelle Vague francese e del cinema underground americano. Un esperto di musica rock e un lettore onnivoro.
Mentre io mi occupavo di programmi di intrattenimento, lui esordiva filmando i Rolling Stones durante la loro tournée italiana, nel 1982. Ma prima era già stato assistente di Anghelopoulos e di Jean-Marie Straub. E in seguito avrebbe lavorato con Robert Kramer, Jean Rouch, Raoul Ruiz…
Mentre io me ne andavo a Roma come tanti, inseguendo “la carriera”, lui decideva di restare a Torino. Occasionalmente mi arrivavano sue notizie, sempre alle prese con problemi di soldi, con progetti irrealizzabili, in perenne precarietà e nomadismo. E il mio giudizio era allora ingeneroso: velleitario, inconcludente...
Nel marzo del 2010, il festival Piemonte Movie gli ha dedicato un omaggio, con una retrospettiva di tutti i suoi lavori. Io ero in sala. Lui ha preso la parola e, in una sorta di pubblica confessione, ha dichiarato di sentirsi “stremato” per quella lunga lotta contro il mondo. Si è messo a nudo, con una sincerità quasi imbarazzante. Avrei voluto abbracciarlo. Quella sera l’ho riscoperto, come persona e come artista. E ho capito il prezzo altissimo pagato per la sua coerenza.
Nei suoi lavori c’è il segno dell’originalità e della genialità. In tutti gli anni in cui io ho lavorato in televisione, lui ha sempre continuato con ostinazione a “fare il suo cinema”, ottenendo apprezzamenti nei festival internazionali: una delle sue opere, “Weltgenie”, un piano sequenza di quattro minuti e mezzo, è nel video-catalogo del festival di Kassel. I suoi lavori sono stati visti, oltre che in Europa, in Cina, in Argentina, in Tunisia, in Marocco. Eppure in Italia era pressoché uno sconosciuto. Un “cineasta marginale”, come aveva scritto provocatoriamente su un cartello appeso al collo durante una manifestazione.
Quella sera ho sentito che Alberto meritava un risarcimento. Io personalmente gli dovevo un risarcimento. Chi dei due aveva fallito? Lui, rimasto fedele alla sua vocazione, o io che l’avevo smarrita per strada? Quella sera ho deciso che “dovevo” far sentire la sua voce e mostrare il suo coraggio. Dovevo portare una luce in quel buio che lo stava inghiottendo, nel disastro dove stava precipitando... La malattia poi ha preso il sopravvento. E io gli sono stata vicina, filmandolo, fino all’ultimo.

Restituire memoria di lui e della sua arte è il mio modo di chiedergli scusa.